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Il maxiprocesso
di Palermo è il nome con cui è ricordato
il processo penale iniziato il 10 febbraio 1986
e terminato il 16 dicembre 1987 a Palermo,
tenuto nell’aula bunker
dai giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
il processo penale iniziato il 10 febbraio 1986
e terminato il 16 dicembre 1987 a Palermo,
tenuto nell’aula bunker
dai giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
CONTRO
“Cosa nostra”, la mafia siciliana.
È chiamato appunto maxiprocesso
in quanto sono indagate più di 400 persone, per reati legati alla
criminalità organizzata: associazione a delinquere di stampo mafioso,
traffico di stupefacenti, decine di delitti
e una serie di reati minori.
Il verdetto complessivo ammonta a 19 ergastoli, tra cui Totò Riina e
Bernardo Provenzano, 2665 anni di carcere, 11 miliardi e mezzo di lire
di multe e 114 assoluzioni.
Il maxiprocesso è reso possibile grazie alle rivelazioni di Tommaso Buscetta,
detto il boss dei due mondi, che nel 1984, dopo l’estradizione dagli
Stati Uniti,
è il primo e più importante degli ex mafiosi che,
per le
rivelazioni che forniscono, vengono chiamati poi “collaboratori di
giustizia” o più comunemente “pentiti”.
Il maxiprocesso
di Palermo è considerato
come la prima reazione importate dello Stato,
ed è in questa occasione che si afferma finalmente
il reato di mafia:
i
giudici Falcone e Borsellino iniziano la lotta alla mafia semplicemente
riconoscendone l’esistenza.
Prima di loro l’omertà e la leggerezza
sull’argomento permettono l’espandersi
di Cosa nostra in ogni campo: dall’edilizia alla politica, dal traffico
di stupefacenti
al riciclaggio di denaro.
Non manca tuttavia una forte e
marcata ostilità da parte di molti componenti della magistratura
palermitana,
che spesso manifestano dubbi e critiche al maxiprocesso
e ai suoi promotori.